
Quando arriveranno tempi migliori? Le incertezze di oggi stanno frenando il mercato del lavoro globale. I conflitti geopolitici spingono il mondo in territori sconosciuti e inquietanti, mentre l'instabilità politica si estende anche a Paesi un tempo considerati sicuri. In poche parole, non c'è nulla di certo. E quando nulla è certo, anche i progetti di trasferimento finiscono sotto esame. Chi valuta di partire fa due conti: lasciare o tenersi stretto un lavoro che non piace? Cambiare settore o restare nella stessa area professionale? Questi dilemmi mettono in luce nuove tendenze che stanno ridisegnando il mercato del lavoro internazionale.
Restare aggrappati al lavoro: difenderlo a ogni costo
A prima vista, l'espressione "restare aggrappati al lavoro" può sembrare quasi positiva: viene in mente qualcuno che ama talmente ciò che fa da tenerselo stretto. In realtà è l'opposto: i lavoratori restano ancorati al posto per paura di ciò che potrebbe accadere dopo. Non è una scelta consapevole, ma una mossa difensiva di fronte all'incertezza economica.
Il fenomeno, osservato inizialmente negli Stati Uniti, si sta diffondendo anche altrove. L'epoca delle dimissioni di massa, durante la pandemia, è finita. Oggi le persone rimangono ancorate al proprio impiego non per passione, ma per il timore di perderlo.
La crescita dell'intelligenza artificiale non fa che aumentare l'ansia. Dall'automazione delle mansioni ai tagli del personale, fino alla riduzione delle responsabilità, l'IA sta trasformando i ruoli in modi percepiti come minacciosi. Di fronte a tanta incertezza, molti dipendenti preferiscono restare in un lavoro che non amano piuttosto che rischiare l'ignoto. I più giovani sembrano i più inclini a questa scelta.
Restare aggrappati al lavoro può sembrare un aspetto positivo: i dipendenti restano, il turnover si riduce e l'azienda appare più stabile. In realtà è un'illusione. Non si tratta di lealtà, ma di sopravvivenza. I lavoratori non sono coinvolti né si sentono legati all'azienda. Restano solo perché non sanno dove altro andare. E spesso finiscono per fare il minimo indispensabile pur di conservare la posizione.
Questa mancanza di ambizione ha conseguenze pesanti: niente mobilità interna, nessuna voglia di formarsi, nessun percorso di crescita, nessun rischio calcolato. Su larga scala, il diffondersi del fenomeno potrebbe portare a un mercato del lavoro paralizzato. Sul piano personale, gli effetti non sono meno gravi: perdita di fiducia in sé stessi, calo di motivazione, ansia crescente e perfino depressione.
Restare aggrappati in chiave positiva: un investimento per il futuro
C'è chi sostiene che questo atteggiamento possa avere anche un lato positivo. In questa modalità, i lavoratori considerano il loro impiego come una sorta di parcheggio o sala d'attesa. Usano il posto per mettere da parte risparmi in vista di un trasferimento all'estero, ad esempio, o per finanziare una formazione che li aiuti a cambiare carriera.
In questo caso non c'è un vero attaccamento al ruolo attuale, ma un approccio pragmatico: “faccio quello che serve adesso per raggiungere i miei obiettivi professionali più avanti”. Una strategia che può farli apparire più fedeli e motivati, perché l'atteggiamento è costruttivo. Non restano per paura, ma per scelta, trasformando l'attuale lavoro in un trampolino per il futuro.
Detto questo, la versione “positiva” funziona solo se il lavoratore svolge con piacere le proprie mansioni. Fingere che vada tutto bene quando, in realtà, si detesta il lavoro genera stress e rischi per la salute mentale. Anche un atteggiamento costruttivo può nascondere insidie se serve solo a coprire un disagio reale.
Lavoro rifugio: una realtà temporanea
A prima vista, restare aggrappati al lavoro e cercare un lavoro rifugio possono sembrare la stessa cosa, ma c'è una differenza sottile. Chi resta aggrappato lo fa per paura: l'atteggiamento è difensivo. Chi invece punta a un lavoro rifugio sceglie la stabilità in attesa di tempi migliori.
E' un approccio più vicino alla versione “positiva” del restare aggrappati. Il lavoratore sa che l'impiego attuale è solo temporaneo. Appena si presenterà un'occasione migliore - che sia un trasferimento all'estero, una promozione o un cambio di azienda - se ne andrà senza voltarsi indietro.
Cambiare spesso lavoro: trampolino di lancio o trappola?
Per decenni i vuoti nel curriculum sono stati considerati un campanello d'allarme per i datori di lavoro. Oggi, però, anche un curriculum pieno di esperienze brevi in diverse aziende può destare sospetti. È segno di instabilità o, al contrario, di capacità di adattamento?
I sostenitori del “cambiare spesso lavoro” sostengono che non si tratti affatto di instabilità. Anziché restare bloccati in un ruolo che non piace, chi cambia lavoro con frequenza lascia subito e va in cerca di nuove esperienze. Non aspetta di annoiarsi per fare il passo successivo. La motivazione è quella di accumulare competenze diverse, ampliare la propria rete di contatti e accelerare la carriera.
Questo atteggiamento è particolarmente diffuso tra i neolaureati e i giovani professionisti. Molti di loro si trasferiscono all'estero proprio per costruire una carriera attraverso esperienze diverse.
Ma il cambio frequente di lavoro rappresenta una sfida per i selezionatori, soprattutto a livello internazionale. Come integrare dipendenti che considerano la “carriera” una sequenza di esperienze brevi? E come trattenerli abbastanza a lungo da giustificare un investimento su di loro? Alcuni recruiter continuano a pensare che chi cambia spesso lavoro non sia affidabile: li vedono poco adatti a progetti di lungo periodo o privi di reale adesione alla cultura aziendale.
Le persone che cambiano spesso lavoro la pensano diversamente. Il loro percorso non è incoerente, ma versatile. Intrecciando le diverse esperienze, riescono a mettere in risalto competenze tecniche e relazionali che arricchiscono la loro storia professionale. Per gli espatriati, in particolare, questo racconto può diventare un modo efficace per rassicurare i potenziali datori di lavoro.
Tendenze del mercato del lavoro globale: cosa significano per gli espatriati
L'evoluzione di queste pratiche lavorative riflette le sfide dell'attuale scenario mondiale. Negli ultimi anni il mondo ha affrontato crisi a catena: una pandemia, eventi climatici estremi e guerre che hanno coinvolto grandi potenze. Le tensioni sono altissime e le economie sempre più polarizzate.
In questo contesto è esploso il lavoro a distanza, salvo poi essere in parte ridimensionato. Allo stesso tempo l'intelligenza artificiale ha fatto un salto, paragonato da molti alle rivoluzioni industriali del passato. Un fenomeno affascinante, ma anche inquietante.
I ricercatori avvertono che la formazione continua è ormai indispensabile - e questa tendenza non farà che accelerare. Nei settori più competitivi i professionisti devono aggiornare costantemente le proprie competenze. Domani lo scenario potrebbe essere ancora più radicale: ci si potrebbe aspettare che un lavoratore cambi addirittura settore più volte nel corso della vita. Ma chi è davvero pronto - o in grado - di farlo?
Questa prospettiva rende facile immaginare un futuro dominato solo da chi cambia spesso lavoro. Ma è improbabile che accada. Il cambio frequente di impiego continuerà a convivere con chi resta aggrappato al proprio posto, con chi sceglie un lavoro rifugio e con molte altre strategie professionali. In definitiva, il mercato del lavoro globale rimarrà variegato e complesso, proprio come le persone che lo vivono e lo attraversano.